Alimentazione in Kenya

L’attività agricola e l’allevamento sono le principali attività della popolazione kenyota, ma il problema fondamentale è la scarsità di terreni coltivabili, che raggiungono appena il 5% della superficie del paese. L’agricoltura si pratica troppo spesso in appezzamenti molto frazionati, con scarsità di attrezzatura e concimi. Molto è stato fatto per migliorare l’agricoltura di sussistenza del paese, attività che rimane ancora il punto principale nel piano di sviluppo economico del governo locale, assieme all’allevamento specializzato commerciale.

I prodotti locali ora sono in grado di provvedere all’alimentazione di tutto il paese, anche se manca tuttora una equa distribuzione nel territorio, soprattutto negli altipiani interni, aridi e incolti, svantaggiati dalla scarsità di rete stradale.

Ogni tribù si ciba dei prodotti della propria terra ed essendoci poca varietà nelle coltivazioni, un popolo finisce per cibarsi sempre delle stesse pietanze. Fra i contadini chi produce grano mangia grano, chi produce riso mangia riso; chi fa il pescatore mangia pesce e così via; né si conosce distinzione tra colazione, pranzo o cena.

L’allevamento è sempre stata una attività molto diffusa in Kenya, sia quello indigeno tradizionale che quello specializzato commerciale. Mentre il secondo tipo di allevamento sta prosperando in questi ultimi decenni, portando benessere e ricchezza, sopravvive invece quello tradizionale, praticato nelle zone interne steppose e aride. Gli animali faticano a raggiungere un peso utile alla macellazione e producono poco latte, appena sufficiente per i bisogni della tribù. Pertanto manca la produzione di formaggio. Gli allevatori cercano di risparmiare i buoi e si cibano delle carni delle capre e delle pecore, la cui carne viene arrostita assieme a qualche tubero. La produzione dell’allevamento tradizionale, di tipo nomade o seminomade, è completamente assorbita dall’economia tribale e non produce alcuna ricchezza.

L’attività agricola produce grano, granoturco, riso, orzo, ma anche molte arachidi, patate, manioca, banane, noci di cocco, tè e caffè.

In cucina è molto usato il latte di cocco e viene messo un po’ su tutto: sui piatti di carne, di pesce, sulle verdure, perfino nelle minestre. Anche la banana è molto impiegata in cucina sulle carni e sul pesce. Le verdure più usate sono i fagioli, le patate, i piselli, la cipolla. Le spezie sono poco comuni eccetto il peperoncino chiamato pili-pili. I piatti più comuni sono l’ugali, una polenta di mais bianco; l’irio, il kenyeji o il mukimu, nomi diversi di uno stesso piatto a base di purè di patate con aggiunta di chicchi di mais, piselli, fagioli e cipolla. Il riso è molto comune, ma spesso si tratta di riso importato dalla Cina, di basso costo.

La zona costiera del Kenya ha subito l’influenza del vicino Medio Oriente e degli immigrati dall’India. Per questo motivo sono spesso presenti piatti di tipo orientale: il curry, una minestra speziata chiamata muligatawni, il chapati o pane indiano, il riso pilaf, la samosa e il kebab del Medio Oriente.

Le famiglie tribali in Kenya consumano il pasto tutti seduti su una unica stuoia attorno a un grande piatto centrale. Tutti si servono usando le tre dita della mano destra. Di solito la portata è unica ma molto spesso ci sono dolci di paste fritte e frutta come banane, ananas, papaia, miele. A fine pasto spesso si beve il caffè, il kahawa, di cui il Kenya è un grosso produttore, oppure il chai, il tè prodotto in abbondanza sugli altipiani interni. Si prepara il tè come infusione direttamente nel latte e poi viene zuccherato moltissimo.

Offrire tè o caffè agli ospiti, a qualsiasi ora del giorno, è una tradizione del posto, come anche offrire una tazza di caffè appena alzati, prima ancora di lavarsi. Non è cortesia rifiutare.

A pasto nei villaggi, si beve anche il changaa, che è una birra fatta in casa con latte e miele.